Una riflessione di Biagio De Giovanni, “Il Mattino”, 11 maggio 2016
A seguito delle gravissime dichiarazioni del Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, rivolte al Primo Ministro Matteo Renzi, si segnala la lucida quanto dura riflessione di Biagio De Giovanni, pubblicata oggi, mercoledì 11 maggio 2016, sulle pagine de “Il Mattino“, che riportiamo integralmente:
Ma Napoli vuole questo?
II discorso tenuto dal sindaco De Magistris al PalaPartenope, due giorni fa, non mi pare debba provocare, come è ampiamente avvenuto, solo reazioni assai critiche, di certo motivate, ma non sufficienti. L’evento è di una particolare gravità che supera di gran lunga questioni lessicali, aggettivi o verbi sicuramente fuori posto, vocaboli impronunciabili in consessi di minima civiltà, un tono nell’insieme esagitato oltre ogni misura. Tutto da sottolineare criticamente, come è stato fatto, soprattutto quando si tratta dell’intervento di una autorità istituzionale. Ma c’è qualcosa di molto più serio e profondo da indagare. Il dato impressionante è che il discorso del sindaco è stato pronunciato per aggregare consenso, non è il discorso da ultima spiaggia di una forza minoritaria che prova a conquistare forze marginali presenti in ogni realtà; è invece l’espressione di chi per cinque anni ha “amministrato” Napoli e oggi appare in prima posizione per rivincere al voto. Allora il problema supera la sua persona e incontra la città, e la domanda che va posta al centro di una (auspicabile) discussione è intorno a che cosa sta diventando quella realtà che si chiama Napoli, quel problema che ha lo stesso nome, non più al centro di nessuna attenzione se non per i soliti esempi di cose «da fare», e che forse ormai sfugge anche alla conoscenza sociologica. Pochi francamente si interrogano su un vero e proprio dato che emerge, esistenziale, civile, una plebeizzazione non più strisciante, una disordinata attitudine a un vociare ribellistico. È proprio questo che sta diventando Napoli? Siccome nella città ha sempre vissuto un sottofondo plebeo e “lazzaresco”, è possibile pensare che da fondo relativamente appartato (ma spesso solo relativamente) esso si stia impadronendo dei luoghi pubblici, stia occupando gli spazi lasciati vuoti dal fatto che sulla città non vi è più un pensiero istituzionalmente corretto e politicamente civile, capace di aggregare contro questa aggregazione antiistituzionale e demagogica, capace insomma di mettere insieme energie, intelligenze, affinché non tutto precipiti verso punti ciechi, senza prospettiva. I luoghi di confronto pubblico si riducono, i ceti medi intellettuali, delle professioni, dell’impresa, sembrano essersi ritirati a vita privata. E aggiungo: quale partito ha capito il rischio, ha svolto opposizione a questa amministrazione? Chi ha compreso, se non qualche singola persona, la china che si era spalancata nel cuore della città? Se il sindaco di Napoli (uomo di cui non va sottovalutata la carica e l’energia politica, e la complessità di un lessico, pur nell’agitazione, da gran demagogo) dice le cose che ha detto, usa il linguaggio che ha usato, vuoi dire che egli immagina di toccare un’anima profonda della città, qualcosa che lo trascina verso il plebiscito, giacché di tono plebiscitario è stato il suo discorso: siamo su un crinale decisivo, o mi prendete o mi lasciate, io sono contro i poteri forti, l’unico onesto in campo, non mi arrendo, non mi vendo, solo con il piombo fuso possono togliermi di mezzo. E allora la vera domanda che ci incalza, e dovrebbe incalzare tutti, è la seguente: Napoli rigetta o accoglie un discorso cosi? Napoli, nella sua maggioranza, è dietro questo modo di interpretare la sua storia, il suo ruolo, il suo popolo, dietro la sua funzione e la funzione di un’amministrazione? Napoli si riconosce in questa immagine eversiva, sola contro il mondo, un popolo in rivolta, una autonomia urlata contro tutto e tutti, una sorta di repubblica autonoma, viva Napoli abbasso il Granducato di Toscana? Che poi significa: abbasso il governo nazionale? Si è mai udito qualcosa di simile? È la Napoli maggioritaria, questa? Sola, isolata dal mondo, isola di una nuova rivoluzione? Quella che condivide il trasferimento della decisione democratica dal Consiglio alle assemblee popolari? Quella che esalta l’azione incontrollata dei centri sociali? I centri sociali al centro del governo? È questo che Napoli vuole? Se è questo che vuole, ha trovato il suo uomo. Personalmente ritengo che la situazione della città sia giunta a un punto tale che anche questo è possibile, tutto questo rumore potrebbe aver colto qualcosa che si va muovendo nel fondo della città. Sarebbe il segnale di un’ombra che va calando nella vita civile. Con la buona pace degli appelli internazionali che vedono – da lontano, però – la rinascita di Napoli, la sua nuova immagine nel mondo. Ma è la democrazia, bellezza, sento già risuonare dal coro. Certo, se il risultato sarà quello, andrà rispettato, ci mancherebbe; ma prima, nel crogiolo delle opinioni in via di formazione, il tema che si deve porre al centro dei dibattito elettorale lo ha dato il sindaco: è quella da lui descritta la Napoli che vogliamo? Il dibattito elettorale dovrebbe concentrarsi su questo, non sul lessico utilizzato, ma sulla sostanza del problema. Invece dell’assurdo affollamento di candidati senza ne capo ne coda, di risse localistiche, di prevaricazioni e prepotenze per un voto in più di preferenza, tutti quelli che si candidano per l’amministrazione della città hanno da oggi nelle loro mani qualcosa che decide del futuro di Napoli. Sono scettico sul fatto che questa sia una coscienza diffusa, ma mi comprometto lo stesso con un finale in cui qualcuno sentirà il sapore della retorica.