Dal modello Casalino al ritorno del comizio
Pubblicato il 20 giugno 2021 da Redazione
di Marco Demarco – Corriere del Mezzogiorno
Come nell’armadio maschile, dopo mesi di tute, pigiamoni e felpe, è riapparsa la cravatta, così nella comunicazione politica è tornato, imprevisto, il comizio.
Dal modello Casalino al modello Bassolino.
Rima a parte, non è un gioco di parole.
Vuol dire che dall’alto della rete, delle piattaforme, della gestione crossmediale del messaggio e dalla logica del Grande fratello applicata perfino nel palazzo istituzionale siamo atterrati al passo dopo passo, sul bus o al bar, cioè al caffè di una volta, cioè lì dove è nata l’opinione pubblica.
Quasi un salto all’indietro dal digitale all’analogico. È la conferma che in questo campo non c’è nulla di lineare, e che il piccione viaggiatore potrebbe benissimo convivere con il podcast. Si è detto che al tempo di De Gasperi, Nenni e Togliatti, la gara —idealmente parlando — fosse con i Cicerone e i Demostene, perché quando i leader di allora parlavano era tutto un fluire di metafore colte e citazioni appropriate. Poi, però, le cose hanno preso un’altra piega. Sono venuti gli anni del politichese, involuto e castale. E quindi quelli del politicoso, che sta alla politica come il petaloso sta al mondo infantile; un linguaggio elementare, per certi versi effimero, per altri efficacissimo sul piano del consenso.
Gli anni degli ormai famosi elenchi di Salvini, della quantità comunicativa più che della qualità. E ora? Con la folla in piazza e l’oratore sul palco stanno tornando le forme antiche della politica. Il che non vuol dire che prevarranno. Solo che non sono morte e sepolte. È un caso che anche il cinema abbia rispolverato il mito di D’Annunzio, cioè della parola decisiva almeno quanto il gesto?
Il fatto è che eravamo proiettati in tutt’altra direzione, che lo sguardo lungo di chi sa cogliere le novità semiologiche si era appena posato sul fenomeno della platform-leadership, e che noi avevamo già prenotato il prossimo numero di Digital-politics, la rivista che annuncia uno studio specifico sul tema. Invece, ecco che da Napoli arriva, se non un dietrofront, almeno un altolà. Il settantenne Bassolino rispolvera il più vecchio degli attrezzi elettorali, il discorso dal vivo, in parte sorretto dagli appunti, in parte «a braccio», come ha raccontato a questo giornale, per meglio adattarsi agli umori del luogo e del momento. E gli va talmente bene — e noi siamo qui a parlarne — che dopo quello in piazza Carità già ne annuncia altri in quasi tutti i quartieri della città.
Contemporaneamente, a proposito di comizi, anche il non ancora cinquantenne Catello Maresca, l’ex pm ora in campagna elettorale con il centrodestra, annuncia il suo. A Ponticelli. Ma Maresca aveva a suo modo annusato l’aria, tant’è che si era messo a salutare le signore per strada con il baciamano, come un gentiluomo d’altri tempi. E pazienza se il galateo vieta tassativamente quel particolare saluto nei luoghi pubblici, perfino a teatro o nelle stazioni, perché l’importante era dire: eccomi, sono fisicamente qui, non sono finto.
Se questo è dunque l’andazzo, se le vecchie maniere ritornano, per gli altri candidati non sarà facile sottrarsi alla sfida della prossimità. Questo vuol dire che forse a Gaetano Manfredi, in campo con il centrosinistra, non potrà più bastare l’operazione «vintage» tentata in questi giorni, la passeggiata con Conte nei vicoli di Napoli, le foto con la maglia di Maradona esposta a scudo contro le maldicenze avversarie, e quelle ad uso redazionale, cioè fintamente private, davanti a una margherita fumante.
È mancato solo l’accenno canoro a «Maruzzella», come pure fece Bossi per farsi perdonare certe battute anti-napoletane, ma sarebbe stato oggettivamente troppo. Tuttavia, con le pizze e i selfie siamo al déjà-vu. Non alla reinvenzione del passato, che e cosa ben diversa. Un già visto, tra l’altro, che stride con l’immagine positiva di Manfredi come uomo dell’innovazione e della rivoluzione tecnologica. Sta dunque cambiando il modo di porsi della politica. La quale sembra viaggiare su un doppio binario: al centro, protetta dalla inamovibilità di Draghi, accentua le differenze identitarie; nei territori, dove il rischio di esporsi e di farsi male è più alto, si affida invece a pratiche più inclusive.
Qui, infatti, il cambio di passo non riguarda solo la prossemica. Emerge, piuttosto, un trasversalismo che ai tempi dei fronti contrapposti, di Camillo e don Peppone, per intenderci, proprio non c’era. Ora tutti tendono a essere tutto. Bassolino, tra i suoi maestri ci mette Amendola, Ingrao e Berlinguer (non a caso le tre anime del Pci) e inizia il suo comizio con «compagne e compagni». Ma subito dopo continua con un più ecumenico «cittadine e cittadini», mentre tra i retori di riferimento inserisce a sorpresa anche il missino Giorgio Almirante. Maresca non vuole saperne dei simboli dei partiti, come si sa, ma tesse l’elogio pubblico di Berlusconi e parallelamente flirta — corrisposto — con De Luca. E Manfredi, da juventino reo confesso, giura di sperare nello scudetto al Napoli, nel tentativo di tenere insieme laicità e fede o, se si vuole, di replicare, in chiave di sentimento pubblico, la pratica pannelliana della doppia tessera. Sono tutti segnali. E probabilmente tra le ragioni del trasversalismo locale — di questo particolare rimescolamento di carte — c’è qualcosa che trascende la dimensione amministrativa della prova elettorale. Forse una sperimentazione in vista di inediti e più generali riposizionamenti politici.